Ariaferma

[…] Le celle dalle porte cigolanti, i tunnel bui, la sterpaglia che soffoca l'orto, la luce che a malapena passa attraverso le fessure delle sbarre, sono i recessi malati di un'anima che si ritiene nel giusto, ma che tuttavia sente di voler volgere uno sguardo “pietoso” nei confronti dei detenuti, perché suoi simili.

[…] Così il vecchio penitenziario abbandonato diventa metafora dello stato d'animo del suo guardiano principale che, nel discendere gli anfratti dell'edificio in rovina, si avventura un po' nel suo io profondo.

Se una parola sola può condensare il significato di Ariaferma, forse questa è “incontro”, inteso come avvicinamento tra due realtà a prima vista incompatibili. Nel film da una parte ci sono gli agenti penitenziari, “le guardie”, dall'altra i dodici detenuti (numero apostolico), “i ladri”, in attesa di un trasferimento. Entrambi i gruppi sono bloccati nel carcere di Mortana, in un tempo di attesa indefinito, sospeso, e in una dimensione spaziale imprecisata, rarefatta, accentuata da una colonna sonora geograficamente non circoscritta, che spazia da note partenopee a cori in greco pontico.  

Il film si apre e si chiude con un'analoga serie di immagini: un pianoro silenzioso coperto dal verde e da immense rocce erose da vento e acqua. I massi cambiano aspetto in base all'angolo di visuale da cui la cinepresa ne osserva le crepe e le ondulazioni. In modo simile ai massi, i volti rugosi dei protagonisti assumono lentamente nuove forme. Il viso degli agenti, contrito in un'espressione severa, a tratti quasi caricaturale (quella dell'agente Coletti sembra una smorfia), o dei detenuti abituati a nascondere i loro pensieri (imprevedibili le riflessioni di Lagioia), è sottoposto allo sguardo indagatore del regista, che rivela di volta in volta nuove sfumature. 

Accade nelle migliori famiglie, e a professionisti ormai schiavi dell'abitudine, di vivere accanto a una persona senza mai conoscerla davvero. In questo carcere, però, le vecchie dinamiche vengono interrotte da circostanze inattese (un blackout, un ritardo burocratico, una mancata consegna), che portano agenti e detenuti a guardarsi meglio,  stabilendo tra loro nuovi equilibri. E se il ritmo della narrazione è teso, inquieto, spesso drammatico, non mancano momenti di umorismo (Lagioia nelle cucine), come nella sequenza della tavolata unica, al centro del carcere, condivisa da detenuti e agenti, illuminata dalla luce delle torce e, soprattutto, dalla gioia di vivere dei carcerati, uniti dalla solidarietà reciproca. Infatti, nei lunghi primi piani dell'ispettore Gargiulo (sottile l'interpretazione di Toni Servillo), che esamina il suo interlocutore, il detenuto Lagioia (un intenso Silvio Orlando, premiato con il David di Donatello), lo spettatore vede un agente che guarda dentro di sé, che osserva se stesso più che il temibile camorrista. 

Così il vecchio penitenziario abbandonato diventa metafora dello stato d'animo del suo guardiano principale che, nel discendere gli anfratti dell'edificio in rovina, si avventura un po' nel suo io profondo. Le celle dalle porte cigolanti, i tunnel bui, la sterpaglia che soffoca l'orto, la luce che a malapena passa attraverso le fessure delle sbarre, sono i recessi malati di un'anima che si ritiene nel giusto, ma che tuttavia sente di voler volgere uno sguardo “pietoso” nei confronti dei detenuti, perché suoi simili (come del resto aveva fatto da ragazzino, medicando una tortora, colpita a caccia).

E uno dei momenti più toccanti del film è la soggettiva in cui lo sguardo dello spettatore coincide con quello di Gargiulo, intento a osservare il fragile detenuto Fantaccini mentre asciuga il torso sudato di Arzano, un carcerato disprezzato da tutti gli altri. L'anziano detenuto sembra un Cristo sofferente, che prova pietà per se stesso, per lo stato in cui si è ridotto, mentre le note extradiegetiche dell'organo sottolineano il significato mistico della scena (ricercata ed efficace la colonna sonora originale di Pasqaule Scialò) e suscitano nel pubblico un sentimento di compassione per la condizione umana. 

Lagioia incoraggia la rottura di ogni barriera tra detenuti e agenti, una crepa che la maggioranza degli agenti non approva, al contrario di Gargiulo. Ma la sua tensione è alta, perché una rivoluzione dei ruoli ne mette a rischio l'autorità. La difficile dinamica tra i due gruppi si condensa infine nel rapporto complesso tra Gargiulo e Lagioia (un uomo facile al ricatto morale), e in una delle sequenze finali i due protagonisti scendono nell'orto abbandonato del carcere e si ritrovano a raccogliere insieme verdure e ricordi, a strappare ciascuno erbe diverse, come a stigmatizzare un'origine simile (sono cresciuti nello stesso quartiere), ma un retroterra distante (famiglie e valori antitetici). 

Il campo lungo finale, in cui i due personaggi si incamminano in silenzio, di spalle, per rientrare nel carcere dopo aver raccolto le verdure, enfatizza la loro posizione reciproca. Sembrano condividere un po' del loro passato e tanto del presente, ma – il regista sembra suggerire – esiste ancora una linea di demarcazione tra il bene e il male, tra il giusto e l'ingiusto, tra la guardia e il ladro. Il secchio con le erbe lo porta Lagioia. Gargiulo ha le mani libere.

 

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Ariaferma | Film | Leonardo Di Costanzo | IT 2021 | 117’

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First published: November 22, 2022