Tutto l'oro che c'è

[…] Se paragonassimo il film a un fiume potremmo pensare di seguire il suo corso principale, sostanzialmente quello della narrazione, oppure deviare e cercare rivoli d’acqua minori, ma altrettanto interessanti dal punto di vista dell’esperienza filmica.

[…] Il parco e il fiume emergono nella loro bellezza ma sono lontani anni luce dall’idillio: è come se incombesse su di loro una minaccia costante.

[…] L’osservazione è un altro polo di riflessione del film. I personaggi, in particolare il ragazzino, sono portatori di uno sguardo attivo e, allo stesso tempo, sono pedinati dalla macchina da presa.

Text: Mattia Lento | Audio/Video: Lena von Tscharner

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Text: Mattia Lento | Reading: Eleni Molos | Editing: Lena von Tscharner

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C’è più di un modo per guardare Tutto l’oro che c’è, il documentario del regista Andrea Caccia fuori concorso alle Giornate del cinema di Soletta, e diversi sono anche i percorsi di lettura possibili. Se paragonassimo il film a un fiume potremmo pensare di seguire il suo corso principale, sostanzialmente quello della narrazione, oppure deviare e cercare rivoli d’acqua minori, ma altrettanto interessanti dal punto di vista dell’esperienza filmica.

La metafora non è casuale: l’opera del regista italiano ci porta nel Parco regionale del Ticino, in Lombardia, e ritrae alcuni personaggi che si rapportano al fiume e al suo ambiente. I protagonisti sono cinque e hanno in comune due caratteristiche: non proferiscono quasi mai parola e sono tutti di sesso maschile. Per il resto hanno età differenti e un diverso approccio al fiume. Il titolo ci riporta al personaggio più forte, ovvero a un anziano cercatore d’oro, materiale di cui il Ticino è sorprendentemente ricco, una persona ai margini del fiume e forse anche della vita, dalla gestualità lenta, antica, quasi mistica. Un uomo sulla cinquantina, alla ricerca del suo eden, vive il fiume completamente nudo, senza inibizioni rispetto alla presenza della macchina da presa. Un altro, un po’ più giovane, è invece impegnato nella caccia, proibita all’interno del parco. Un carabiniere ormai in pensione, vestito comunque con la divisa d’ordinanza e munito di macchina fotografica, si aggira ai bordi del fiume, conferendo ad alcune scene i toni del giallo; mentre il giovane ragazzo, figlio dello stesso regista, il più creativo nel suo rapportarsi al fiume, sembra uscito da un romanzo d’appendice destinato alla gioventù. Queste storie così diverse, raccontate con registri eterogenei, sembrano però destinate a incontrarsi, e questa sensazione, più epidermica che razionale, accompagna piacevolmente lo spettatore fino alla fine del film.   

Accanto al corso principale, dicevamo, altri rivoli arricchiscono il film. Infatti Tutto l’oro che c’è è anche opera da contemplare. Lo spettacolo della natura, degli animali e degli insetti, mediati da uno sguardo ibrido, a metà strada tra quello della macchina da presa e quello dei personaggi, è una sorta di filo rosso  che accompagna il film. Il parco e il fiume emergono nella loro bellezza ma sono lontani anni luce dall’idillio: è come se incombesse su di loro una minaccia costante. Una sensazione o, più che altro, un’atmosfera creata sia tramite immagini, sia tramite suoni, soprattutto quelli provenienti dai velivoli in partenza o in arrivo dell’aeroporto di Malpensa. Senza contare poi che il parco stesso, con i suoi edifici e le infrastrutture in rovina, la sporcizia, le ferite provocate dal cemento, l’inquinamento acustico è tutto fuorché natura incontaminata. In questa dimensione contemplativa, l’essere umano appare come una presenza ingombrante, fuori posto, come un essere vivente potenzialmente infestatore, colonizzatore.

L’essere umano in questione è di sesso maschile. Nel film infatti la mascolinità è al centro. Una mascolinità non stereotipata, a tratti selvaggia, a tratti fragile, ma mai scontata. Le donne sono confinate ai margini della narrazione, sono solo comparse. Alcune di loro ascoltano a tutto volume una vecchia canzone di Mia Martini dedicata agli uomini, che è anche un grido di dolore – oggi forse un po’ kitsch – rispetto all’incomunicabilità tra i sessi.  

L’osservazione è un altro polo di riflessione del film. I personaggi, in particolare il ragazzino, sono portatori di uno sguardo attivo e, allo stesso tempo, sono pedinati dalla macchina da presa. In questo gioco dei punti di vista, lo spettatore rischia di perdersi, ma ha anche la possibilità di trovare un suo percorso percettivo e ricettivo del tutto personale. In un paio di scene è addirittura l’animale che, con sospetto e paura, osserva l’uomo. A volte si ha l’impressione, soprattutto nei momenti in cui appaiono meno consci della presenza del regista, che i personaggi siano trattati alla stregua della natura ritratta nel film. Questa sensazione è però interrotta bruscamente nei momenti in cui il personaggio si rapporta con i dispositivi tecnologici onnipresenti nella nostra vita come tablet o smartphone.

Il progetto del film appare semplice e complesso nello stesso tempo. È lo stesso regista, alla fine della proiezione di Soletta, ad ammettere di aver lasciato degli spazi, quasi dei piccoli vuoti di senso, in cui lo spettatore possa costruire il suo percorso interpretativo o più semplicemente esperienziale. A prescindere dall’esperienza soggettiva, è indubbio che l’opera di Caccia sia una delle perle dell’ultima edizione del festival.

 

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Tutto l’oro che c’è | Film | Andrea Caccia | IT-CH 2019 | 100’ | Solothurner Filmtage 2020

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First published: February 04, 2020