Quando ero Cloclo

[…] Knuchel ha la capacità, come i bambini, di leggere nell'anima delle persone e di cogliere in ciascuno qualcosa di positivo, di modificare un po' la realtà se questa appare troppo brutta, di inventarla (e fingersi Cloclo, anche se non gli assomiglia).

[…] Un piccolo gioiello nel panorama del cinema svizzero, un film godibile, interessante, che va dritto al cuore di ogni spettatore, mentre ripercorre – sullo sfondo – con originalità e maestria tecnica, non poca storia sociale e di costume di quest'angolo per certi versi
poco conosciuto (la Svizzera) al centro dell'Europa.

Toccante, complessa e singolare, quest'opera autobiografica di Stefano Knuchel è insieme una storia personale e un ritratto di una famiglia svizzera dagli anni Sessanta a oggi, ma in realtà racconta molto di più, trascendendo la categoria del genere documentario in cui si iscrive. Come se uscisse da un travagliato percorso di analisi, Knuchel va a ritroso nel tempo, ricostruisce la sua infanzia, fa i conti con il suo passato, con il suo rapporto con i genitori, in particolare con il padre: «risolve un ricordo», dichiara il regista. Da un lato c'è il pilastro numero otto del condominio popolare di Ginevra, a Les Avanchets, dove ha trascorso gli anni più spensierati della sua infanzia: l'epoca in cui lui si considerava la reincarnazione del cantante francese Claude François (detto Cloclo) e ne imitava movenze e canzoni, diventando un vero fenomeno in Svizzera; dall'altro la collina di terra rossa che lui e il fratello maggiore Fabio osservavano da piccoli, in Spagna, presagendo qualcosa di oscuro: la follia, il senso di straniamento che lo accompagneranno sempre negli anni. Due luoghi dell'anima, che sembrano spaccare in due il cuore del film e del suo autore.

Dietro la voce narrante di Knuchel, sicura di sé, avvincente nel racconto, costruito insieme ai ricordi di sua madre e di sua sorella Antonella, si avverte sempre un'angoscia esistenziale, quella che ha segnato i suoi anni formativi, in assenza di una vita regolare, di scuole, di amici, in perenne fuga dalla realtà per via di un padre “troppo” furbo, sempre pronto a scappare da responsabilità, case e polizia. Knuchel ha il coraggio di discutere pubblicamente della propria famiglia, ma non cerca di impressionare il pubblico con una requisitoria alla Festen (Vinterberg), piuttosto ha uno sguardo talmente umano verso il padre, per cui dalla condanna si arriva infine all'assoluzione.

Lo si potrebbe definire un film sull'"accettazione" dell'altro per quello che è, aldilà di valori morali condivisi, oltre le sue colpe e le sue responsabilità. Knuchel ha la capacità, come i bambini, di leggere nell'anima delle persone e di cogliere in ciascuno qualcosa di positivo, di modificare un po' la realtà se questa appare troppo brutta, di inventarla (e fingersi Cloclo, anche se non gli assomiglia). Dopo la visione del film lo spettatore prova un senso di riconciliazione anche con i propri fantasmi del passato, con i propri nodi familiari. La cruda realtà non genera cinismo, ma solidarietà, come accade in Segreti e bugie di Mike Leigh.

Per via della storia personale del regista, Quando ero Cloclo è anche un film di luoghi: Locarno Monti, Torremolinos, Ginevra, Crans Montana, la costa francese, Sementina. Sono posti che Knuchel ha la capacità di farci scoprire con i suoi occhi infantili, con tutto il carico emotivo dei ricordi, luoghi oggettivamente belli o banali, rimasti uguali solo nelle cartoline, ma resi straordinari dall'immaginazione e dal potere dei sentimenti. Un'impresa nostalgica realizzata con mezzi semplici: una brillante colonna sonora (in gran parte composta da Knuchel stesso, musicista di formazione); l'insistenza su pochi oggetti-simbolo dei vari decenni, osservati da vicino: l'angolo bar nelle case, il jukebox, il walkman, il night club; uno stile di ripresa in cui il colore rimanda alla qualità delle polaroid dell'epoca; un'attenta selezione di spezzoni di film o di materiale d'archivio; l'occasionale ricorso alla cutout animation (come nella sequenza dei due fratelli che osservano la collina di terra rossa o in quella della sgargiante Volkswagen verde che sfreccia tra i casermoni del sobborgo di Ginevra).

L'abile giustapposizione di fotografie e canzoni d'epoca con riprese attuali di luoghi e persone rende ancora più stridente il contrasto tra passato e presente, tra l'immaginazione e la realtà, tra il desiderio di ritrovare i luoghi dell'anima e la loro definitiva scomparsa. Ma Knuchel è un sognatore e, di fronte alla distruzione della casa di Sementina, dove la mamma ha abitato per 30 anni, dirà: «Che distruggano pure tutto quello che vogliono del nostro passato, tanto noi lo ricostruiremo in meglio». E lui lo ha fatto con l'abilità di chi sa fare i giochi di prestigio, l'attività in cui il padre, ormai anziano e svuotato di qualsiasi ricordo significativo per Knuchel, riesce ancora ad esibirsi con successo.

Il film è quindi anche un'opera sulla nostalgia, sulla sacralità dei propri ricordi: quello scrigno prezioso che nessuno può portarci via. I nostri ricordi, in fondo, possono anche deformare la realtà, ma ciò non ha importanza, perché non è la verità oggettiva che conta alla fine dell'esistenza, ma la nostra percezione individuale di eventi e situazioni. Guardare il film di Knuchel richiama un concetto che Henry Miller ha ben espresso in un suo racconto, dove dice che trascorriamo la giovinezza in una dimensione in cui sonno e sogno si confondono, ma quando raggiungiamo la maturità «non assorbiamo più la scatenata musica esterna delle strade, ricordiamo soltanto».

Un piccolo gioiello nel panorama del cinema svizzero, un film godibile, interessante, che va dritto al cuore di ogni spettatore, mentre ripercorre – sullo sfondo – con originalità e maestria tecnica, non poca storia sociale e di costume di quest'angolo per certi versi poco conosciuto (il Ticino) al centro dell'Europa.

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Quando ero Cloclo | Film | Stefano Knuchel | CH 2016 | 107’

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First published: October 23, 2017