Pinocchio

[…] Se Garrone presenta film immersi nella realtà quotidiana, ma intrisi di elementi fiabeschi e onirici, per tematica e suggestioni, qui si è in una situazione capovolta, in cui la fiaba è il punto di partenza e il reale entra in quel mondo da cui è solo apparentemente distante, perché racconta di sentimenti e di vicende umane nelle quali tutti possono identificarsi.

[…] E sono le quinte, le retrovie ad affascinare il regista: mondi paralleli e sconosciuti, piegati dalla fatica, dal lavoro nell'oscurità, da quel processo instancabile che porta alla creazione artistica (come la casa-laboratorio di Geppetto o quella di maestro Ciliegia).

Matteo Garrone traduce in immagini il ricchissimo testo di Carlo Collodi svolgendo un'abile operazione di messinscena, laddove riesce a essere fedele sia al romanzo sia al suo personale e unico sguardo sulla realtà. Senza sbavature, senza cambiamenti sostanziali rispetto al contenuto principale dell'opera letteraria, il film dipana le numerose avventure del burattino conosciuto in più di duecento lingue attraverso una versione cinematografica che si distingue per la bellezza, che gioca con le scelte coloristiche, con le potenzialità di inquadrature dall'angolazione insolita, con una ricostruzione sapiente degli ambienti, con una memorabile colonna sonora originale (affidata al premio Oscar Dario Marianelli).

Tanto il testo di Collodi è ricco di battute, giochi di parole, linguaggio variegato, quanto il film di Garrone è carico di attenzione alle soluzioni visive, con una ricerca formale mai fine a sé: dagli insistenti primissimi piani sui volti dei personaggi (grottesche le smorfie del gatto e della volpe, personaggi avidi ed egoisti, resi con grande maestria attoriale da Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, e sempre più prigionieri della loro simulata deformità) ai tanti campi lunghi sulla campagna toscana, dove Pinocchio vaga, ora in fuga e ora alla ricerca del padre, immerso nella solitudine. Da sottolineare anche l'utilizzo quasi espressivo del colore: i toni bluastri della casa fuori dal tempo della fata turchina, il marrone legno del laboratorio di mastro Ciliegia, della casa di Geppetto e dei burattini di Mangiafuoco, o ancora il grigio pece del ventre della balena e del tribunale del paese di Acchiappa-citrulli. In questo difficile processo di trasposizione si perde un po' il tono leggero e umoristico del romanzo, di cui rimane qualche trovata comica degli attori, mentre si ispessiscono di significato i temi più cari al regista.

Diviso tra un mondo oscuro e tenebroso (l'Osteria del Gambero Rosso, il carro dei burattini, la stalla del paese dei Balocchi, la foresta dove Pinocchio è inseguito dagli assassini) e pochi momenti di luce (il lavoro al bindolo per sostenere Geppetto, la nuova casa della Fatina, il momento miracoloso di trasformazione in bambino vero), il personaggio di Pinocchio sembra uscito da uno dei film precedenti del regista: un animo non cattivo, ma vulnerabile, facile vittima delle seduzioni di una vita comoda, dell'ozio, del divertimento (si pensi a Valerio, circuìto dal nano Peppino ne L'imbalsamatore - 2002).

Se Garrone presenta film immersi nella realtà quotidiana, ma intrisi di elementi fiabeschi e onirici, per tematica e suggestioni, qui si è in una situazione capovolta, in cui la fiaba è il punto di partenza (il trucco prostetico di Mark Coulier è il solo cedimento agli artifici del cinema fantasy presente) e il reale entra in quel mondo da cui è solo apparentemente distante, perché racconta di sentimenti e di vicende umane nelle quali tutti possono identificarsi. Le scelte pericolose dei protagonisti dei film di Garrone dipendono da una debolezza interiore (Pinocchio, in quanto burattino appena creato, senza un percorso di educazione, è particolarmente indifeso rispetto alle facili tentazioni) e non tanto da una chiara accusa alla società. Tuttavia il regista – più ancora del romanziere ottocentesco – offre un ritratto accurato del contesto storico e sociale in cui è ambientato il film: l'Italia di metà Ottocento. Quest'aspetto costituisce un'ulteriore nota di merito alla regia, rispetto a tanti adattamenti di testi fantastici, attenti solo all'intreccio e ai personaggi, laddove nel film invece è restituito, con ricchezza di dettagli, un passato italiano fatto di miseria, di lotta per la sopravvivenza, di piccoli paesi di artigiani, di villaggi di pescatori, dove si lavorava duramente per ottenere un pezzo di pane e un bicchiere di latte. In questo ritratto storico trova sempre uno spazio speciale – come del resto negli altri film del regista – il mondo dei derelitti, degli emarginati, degli outsider, osservati da vicino e con grande sensibilità: toccante la sequenza dei burattini – qui interpretati da attori nani – che durante una recita riconoscono Pinocchio come uno di loro e lo abbracciano e accolgono tra le quinte, mentre devono sostenersi a vicenda di fronte alle angherie del burbero Mangiafuoco (un Gigi Proietti indovinato nel ruolo del gigante che si intenerisce).

E sono le quinte, le retrovie ad affascinare il regista: mondi paralleli e sconosciuti, piegati dalla fatica, dal lavoro nell'oscurità, da quel processo instancabile che porta alla creazione artistica (come la casa-laboratorio di Geppetto o quella di maestro Ciliegia). Così è ben tratteggiato non solo il teatro dei burattini girovaghi ma anche il circo dove è costretto a esibirsi Pinocchio-ciuchino, mentre da un palchetto la fata turchina lo osserva inciampare e una lacrima le riga il bel viso. Infatti insieme al personaggio di Geppetto, orgoglioso della sua paternità e carico di umanità in questa versione affidata a Benigni, acquista centralità anche la figura della fata turchina, che prima è una sorta di bambina-principessa, in un ruolo in cui vorrebbero trovarsi tutte le bimbe spettatrici, e poi madre autorevole ma eterea e quasi chimerica, nella bellezza algida di Marine Vacht. Forse proprio l'incontro con la fatina adulta, dopo la trasformazione di Pinocchio da burattino a bambino, costituisce il momento più commovente del film: il miracolo è avvenuto e il momento è immortalato da un'inquadratura che è quasi un dipinto, dove l'oscurità della spelonca è squarciata da un fascio di luce, e bimbo e fata si ritrovano finalmente, mentre delle candide pecorelle fanno da sfondo, per cui la rinascita di Pinocchio ricorda un'altra grotta e un'altra celebre nascita…

Un'ottima prova per Garrone, a confronto con un capolavoro letterario irriducibile nei tempi ristretti di un lungometraggio e di cui ha colto i temi fondamentali, presentandoli con uno stile personale e una pensosità tutta contemporanea.

 

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Pinocchio | Film | Matteo Garrone | IT 2019 | 125’

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First published: December 31, 2019