La pazza gioia
[…] Eppure la forza del film non sta tanto in una regia ricercata, ma poggia soprattutto sui dialoghi di attori diretti egregiamente, su una forte sceneggiatura, su un racconto abilmente costruito, in cui la “fuga” delle due protagoniste costituisce un po’ il motore degli eventi.
[…] Il regista non ha certo la pretesa di compiere un’analisi psicologica della sofferenza di Beatrice e di Donatella, ma un’osservazione attenta della loro fragilità diviene un inno ai valori femminili di sensibilità e intelligenza creativa in contrapposizione alla lunga carrellata di personaggi maschili volgari e vili, qui ritratti con sarcasmo.
Text: Maria Di Salvatore
Fin dall’inizio il film proietta lo spettatore nella quotidianità di una casa psichiatrica circondata dalla rigogliosa campagna toscana. Infatti la steadycam esplora l’ambiente e i personaggi seguendo da vicino un’ospite di Villa Biondi, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi), una delle due protagoniste del film: una donna di mezza età, carismatica, egocentrica e logorroica. Forse durante i primi minuti della pellicola i movimenti un po’ bruschi della cinepresa e i tratti marcatamente istrionici di questo personaggio possono compromettere a tratti la credibilità di qualche scena, ma l’impressione si rivela errata.
Infatti con lo snodarsi del racconto e con il sopraggiungere presso la Villa di una nuova ospite, Donatella (Micaela Ramazzotti) – con cui Beatrice instaura un sincero rapporto di amicizia – la pellicola acquisisce un ritmo dinamico. L’interazione tra le due protagoniste fa decollare il film, coinvolgendo lo spettatore in un vortice di forti emozioni, tra intimi drammi interiori, come il disperato desiderio di Donatella di rivedere suo figlio Elia, e innumerevoli momenti di commedia pura, come la visita di Donatella a una veggente, episodio che sembra un omaggio a un’analoga sequenza di Ladri di biciclette.
Rimangono impresse le inquadrature totali, come quella delle due donne addormentate abbracciate sul lungomare di Viareggio, agghindate in improbabili abiti anni ‘50, mentre lentamente il crepuscolo diventa oscurità, sullo sfondo un’ampia spiaggia con file di ombrelloni chiusi, e a distanza il profilo elegiaco di un’antica chiesa; oppure quella di Donatella aggrappata al passeggino, in procinto di compiere un gesto estremo, alle sue spalle solo lo strapiombo e il mare luccicante sotto il sole indifferente del mattino.
Eppure la forza del film non sta tanto in una regia ricercata, ma poggia soprattutto sui dialoghi di attori diretti egregiamente, su una forte sceneggiatura, su un racconto abilmente costruito, in cui la “fuga” delle due protagoniste costituisce un po’ il motore degli eventi: fuga dalla casa di cura, fuga dall’OPG di Mantova (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), fuga da un improbabile passaggio in auto, fuga dalla casa materna (di Donatella), fuga dalla casa dei genitori (di Beatrice) nel mezzo di un set cinematografico che le ritrae come Thelma e Louise; sempre e solo fuga. Predomina così una forma di narrazione che sembra mutuata dai romanzi d’avventura, anche se la sopravvivenza dell’eroe qui è di tipo psicologico e il desiderio di perdersi e di evadere nasce da una legittima ricerca della felicità, di quella “pazza gioia”, che tuttavia dovrà scontrarsi con continue delusioni.
Donatella è spesso chiusa in un suo mondo privato, ha alle orecchie un paio di cuffie e ascolta ininterrottamente “Senza fine” di Gino Paoli (canzone che lei crede composta da suo padre). Il testo di questa canzone pare rappresentare la colonna sonora metaforica del film. Infatti l’amore esclusivo cantato da Paoli è proprio l’amore assoluto (unilaterale e distruttivo) che ha portato – in circostanze diverse – le due protagoniste a ritrovarsi in relazioni amorose sbilanciate e autolesive, che le hanno rovinate.
Il regista non ha certo la pretesa di compiere un’analisi psicologica della sofferenza di Beatrice e di Donatella, ma un’osservazione attenta della loro fragilità diviene un inno ai valori femminili di sensibilità e intelligenza creativa in contrapposizione alla lunga carrellata di personaggi maschili volgari e vili, qui ritratti con sarcasmo. Si pensi al padre assente e fallito di Donatella; agli uomini che hanno fatto perdere la testa a Beatrice e Donatella: Renato e Maurizio, entrambi grossolani e privi di scrupoli; all’uomo che accetta di dare un passaggio alle due donne pensando di approfittare di loro; all’ex-marito di Beatrice, un debole totalmente influenzabile; al personale inflessibile della casa di cura e dell’OPG (a eccezione di un giovane medico).
Infatti è con ironia quasi caricaturale che il regista svolge un’impietosa accusa del sistema medico-psichiatrico, capace solo di imbrigliare il paziente tra protocolli farmacologici e terapie standardizzate, senza coglierne l’anima e l’umanità profonda. Se però il riferimento al tema della “pazzia” e al confronto/scontro tra il mondo dentro e fuori dai manicomi non è nuovo nel dibattito odierno (gli OPG sono stati chiusi solo nel 2015 per condizioni di degrado), è invece interessante individuare un altro elemento sociologico sotteso alla trama e alla scelta delle protagoniste del film.
Non sembra infatti così azzardato scorgere nei personaggi di Beatrice e di Donatella due diverse generazioni dell’Italia di oggi, frastornata da valori effimeri. Da un lato c’è la vecchia generazione (Beatrice): facoltosa, vanitosa, ma dotata ancora di gusto, di ingenuità e di ottimismo; dall’altro c’è la nuova generazione (Donatella): squattrinata, depressa, trasandata, ma umile e bisognosa di attenzioni. Alla fine l’intraprendenza di Beatrice viene ricompensata, per cui non solo riuscirà a “salvare” Donatella, altrimenti abbandonata dalla famiglia e dalla società, ma sarà lei stessa vivificata dalla forza di quest’amicizia.
La pazza gioia è un film da non perdere perché riesce a dire tutto questo e molto di più divertendo ed emozionando lo spettatore. Undici le candidature al Nastro d’argento, incluse quelle meritatissime per i costumi, per le due migliori attrici protagoniste e per l’attrice non protagonista (Valentina Carnelutti nel ruolo della dottoressa non convenzionale di Villa Biondi) e, ovviamente, per la sceneggiatura (di Virzì e Archibugi).
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