Fuocoammare

[…] Ecco che il montaggio lavora su un doppio binario: ora sembra porre sullo stesso piano condizioni umane apparentemente distanti, ora invece addita l’abisso che separa vicende comparabili solo in superficie.

[…] Portrait austère d’une société calfeutrée, frileuse, repliée sur elle-même, tout en organisant ses services humanitaires. Paradoxe sidérant. La métaphore est considérable, si Gianfranco Rosi l’a voulue au sens de stigmatisation de l’Europe qui manifeste son échec tout aussi considérable à définir une politique commune à l’endroit de ce phénomène affligeant.

MARIA DI SALVATORE:

Le vicende del piccolo Samuele – e dei lampedusani – e quelle dei migranti giunti sull’isola viaggiano su binari paralleli senza (quasi) mai incontrarsi. Eppure la sapiente regia di Gianfranco Rosi e un eccezionale montaggio, affidato a Jacopo Quadri, riescono a stabilire inconsueti ponti tra questi due mondi. Lo spettatore è incoraggiato così a cogliere sottili somiglianze tra la condizione umana di chi a Lampedusa è nato e quella di chi ora si trova lì solo di passaggio.

Sta per imbrunire: il piccolo Samuele si procura da un albero il legno necessario per costruire una fionda con cui colpire dei passerotti che, indifesi, dormono nell’intrico di fitti rami. È la bravata, il passatempo di un ragazzino delle medie. Riesce difficile però non associare questa sequenza alla successiva: il mare prima sullo sfondo, ora è al centro, immenso, oscuro. Il suo silenzio è interrotto solo dal richiamo inviato da alcuni migranti che, indifesi come quei passerotti, mandano una richiesta di soccorso dai loro barconi, un segnale captato da un radar nel buio, dalla cui risposta dipende la loro sopravvivenza. A volte ce la fanno, altre no.

Racconta la nonna a Samuele che durante la guerra si diceva “fuocoammare” per indicare il mare di notte, pieno di navi militari, quando diventava rosso per le esplosioni. All’epoca il nonno non andava a pescare di notte. Il film ci mostra invece una battaglia contemporanea e silenziosa che si svolge nell'oscurità, in quello stesso mare che circonda Lampedusa. È la guerra dei migranti che oggi lottano tra la vita e la morte, che sperano di non affondare, di sopravvivere alle ustioni provocate dalla nafta di barconi fatiscenti, alla disidratazione. È proprio questo il caso di tre migranti che vengono soccorsi, sollevati di peso dal loro barcone e sdraiati sulla chiglia di uno scafo: respirano a fatica, tremano, come quei calamari pescati dallo zio di Samuele, adagiati ancora vivi sui legni della barca, con gli occhi spalancati.

La nonna di Samuele è sola, vive dei ricordi del marito, presenti in piccoli oggetti: quel letto che lei rifà quotidianamente come se lui fosse ancora presente, quella fotografia sul comodino, con una candela sempre accesa accanto. La perdita del proprio amato è una sofferenza indescrivibile, ma deve essere ancora più drammatica per la giovane migrante che apprende del decesso del suo caro durante un salvataggio, appena sbarcata. Il suo strazio è amplificato dal vuoto che è attorno a lei: solo una persona cara ad abbracciarla e a sostenerla e poi nulla. Non le rimane che la vista di un sacco nero attorno a un corpo ormai inerme. Ecco che il montaggio lavora su un doppio binario: ora sembra porre sullo stesso piano condizioni umane apparentemente distanti, ora invece addita l’abisso che separa vicende comparabili solo in superficie.

È struggente la colonna sonora dei lampedusani: classici della canzone italiana, canzoni popolari siciliane (come “Fuocoammare”), arie d’Opera. Risuonano dalla locale radio Delta nella spaziosa cucina di zia Maria mentre, dopo pranzo, prepara il caffé: un universo di lenti rituali quotidiani, mentre a poche centinaia di metri, nel centro di accoglienza dai muri scalcinati, alla luce del neon, un migrante nigeriano improvvisa una canzone in cui la disperazione del gospel sposa la rabbia del rap: fuggire dalla guerra, dal deserto, dalla prigionia, passare dalla Nigeria al Sahara, da lì alla Libia, vedere i compagni morire, ma resistere e continuare, e poi salpare, perché per sopravvivere bisogna rischiare, ma «il mare non è una strada». E non era una bella vita quella dello zio di Samuele, che racconta di come da giovane stava via anche sei, sette mesi, sempre a bordo, con attorno solo cielo e mare.

Il mare insidioso come quello di Aci Trezza di verghiana memoria è sia lo sfondo sia il protagonista degli eventi dell’isola. Non vediamo la Lampedusa patinata dei depliant turistici né quella assolata e seducente del film Respiro: l’isola è aspra, grigia nelle giornate ventose di gennaio, quando il mare mosso rende difficile la vita dei tanti marinai dell’isola, come il solitario pescatore di ricci. Quando è agitato questo mare sembra livellare le esistenze degli isolani e dei migranti: rende più difficile per Samuele abituarsi a stare in barca senza soffrire, senza vomitare, mentre può addirittura costare la vita ai migranti.

Il dottor Bartolo racconta tanti episodi personali della sua attività di medico sull’isola, sempre pronto ad aiutare i migranti, animato da professionalità e, soprattutto, da grande umanità. Infatti con il suo esempio lancia un chiaro messaggio di speranza al pubblico, un messaggio che va oltre le barriere linguistiche e le oggettive difficoltà comunicative tra lampedusani e migranti (esemplare la scena in cui svolge l’ecografia a una donna migrante incinta). Questo medico funge da anello di congiunzione tra un ambiente fermo e rivolto al passato e una realtà in movimento e orientata al futuro.

Di questo messaggio di speranza si fa portavoce il piccolo protagonista del documentario, Samuele, che rappresenta la nuova generazione. Rimane impressa nella memoria una delle ultime sequenze del film: l’inquadratura soggettiva in cui, di notte, il bambino torna nell’abituale giardino dove tira con la fionda contro i passerotti. Questa volta però non accade il consueto. Il bambino comincia a fischiettare, si avvicina a un passerotto e, quando lo spettatore presagisce l’inevitabile, si ritrova invece sorpreso nel vedere che Samuele comincia a dialogare con il passerotto e poi lo accarezza. Questo mondo che pareva immobile subisce quindi un cambiamento: l’occhio “pigro” di Samuele, tenuto sempre socchiuso quando tirava con la fionda, ha cominciato progressivamente a vedere. L’oculista gli ha imposto di indossare una benda sull’occhio sano, per sforzare l’occhio malato. E così ha cominciato a “vedere”.

Il documentario si conclude con un mezzo primo piano di Samuele che, sul pontile, gioca a fingere di sparare a nemici immaginari e lontani con un finto mitra. Chissà dove si trovano e chi sono questi nemici: non ci resta che guardare quel cielo e quel mare immensi che avvolgono il bambino, cercando di rispondere a quest’interrogativo, cercando di dare un senso a quest’assurda guerra.

*

JEAN PERRET:

La mer de l’enfance – l’œil aveuglé 

Samuele est le personnage central du film de Gianfranco Rosi, le seul identifié nommément, au côté de l’autre personnage, qui lui est collectif et anonyme, composé des migrants. Ce jeune garçon d’une dizaine d’années vit sa vie d’écolier agrémentée de loisirs occupés en particulier à chasser des oiseaux à la fronde. Le film débute par l’escalade d’un pin dans les branches duquel le garçon coupe une petite fourche dont il saura faire avec son copain un vrai lance-projectile. Dès ces premières images, c’est le calme des cadrages qui en impose, caméra portée à l’épaule, comme le découpage de la scène rendu à une narration d’une simple efficacité. Puis coupe brutale, un vrai cut annonçant le mode de narration du film, fait de ruptures radicales. Un radar en rotation apparaît dans la nuit, puis un bateau (de guerre de la marine italienne transformé en centre de premiers soins), un hélicoptère en opération. L’obscurité est lacérée par les raies lumineuses des projecteurs et hantée par les appels à l’aide que la radio de bord capte. Dialogue d’urgence absolue. Puis en conclusion introductive de cette deuxième scène d’ouverture, l’image du navire lancé en toute puissance à la surface immense noire et bleue de la mer.

Samuele ! Il tue des oiseaux et joue à la guerre, mimant à l’envi, bras déployés, des coups de feu d’un fusil à pompe, qui parait plus ressembler à une arme de guerre que de chasse. Il fait feu, réarme et tire à répétition, tout en éructant le bruit sourd de la déflagration. Il insiste et son copain l’incite à cesser : « arrête, tu les as tous tués ! ». Avec les frondes, c’est à un vrai carnage que s’adonnent les deux jeunes en déchiquetant des grandes oreilles de cactus. Ils savent tirer, leurs projectiles atteignent leurs cibles. La scène s’achève sur un acte étrange : les deux guerriers pansent les cactus blessés, couvrent les déchirures de ruban adhésif noir. Bandeaux de deuil, bandages d’une Croix Rouge imaginaire, qui toujours après la violence de la guerre vient soigner les victimes ? Pas un mot, c’est le jeu des enfants, qu’observe Gianfranco Rosi, jamais un commentaire de sa part ni autres d’interventions, même si cette scène, parfaitement tenue dans son déroulement, suppose moins une mise en scène qu’une prise de situation en accord avec les protagonistes.

Et puis, Samuele est frappé par un handicap : son œil droit est « paresseux », il voit très mal, au point que son cerveau doit réapprendre à l’œil d’activer sa capacité de vue. Il doit porter une paire de lunettes aveuglant son œil valide, afin d’activer l’autre. Une nuit, borgne et seul, au terme presque du film, il part à la recherche d’oiseaux, à l’affut de leurs chants. Scène émouvante : le tête à tête entre un oiseau de petite taille, une mésange ?, juchée sur une branche et le garçon, qui tend doucement une brindille de bois pour tenter une caresse. Scène pour de vrai ou de cinéma ? Peu importe, ce petit miracle de tendresse et d’initiation à la fragilité de la nature et du règne animal, ce moment à peine vraisemblable a tout son sens dans le film, qui marque le parcours de ce préadolescent en train de prendre pied dans la vie. Ne doit-il pas apprendre à ne pas avoir le mal de mer, de ne pas vomir à bord du bateau de pêche de son père ? Mais il éprouve par ailleurs, déjà, des difficultés de respiration, mais point du tout, loin s’en faut, d’aspiration, quand il bâfre bruyamment des spaghettis !

L’histoire de ce garçon s’inscrit en creux du grand récit que développe le film, celui des femmes et hommes et enfants qui par centaines, par milliers, sont entassés dans des embarcations en des conditions de survie dont la précarité dépend des sommes extorquées par les passeurs : de 800 à 1'200 dollars révèle le film, selon les places dévolues entre la cale et le pont. Hiérarchie terrifiante à bord, les hommes du fond étant les plus exposés à la mort. Gianfranco Rosi détaille les étapes de prise en charge des réfugiés sans précipitation. Son souci, que sa caméra affirme avec assurance des points de vue permettant dans le temps des scènes et de leur profondeur de champ de comprendre les événements. Et de suivre le processus d’accueil sur les canots de sauvetage, sur le navire, puis le débarquement à quai et le trajet en car jusqu’au centre de premier hébergement.

Au côté de ces visages et corps repus de fatigue fourmillent des hommes et quelques femmes tout revêtus et capuchonnés de blanc avec aux mains des gants médicaux bleus. A aucun moment un contact de peau à peau, entre noire, brune, basanée et blanche ne semble possible. Et le film se plaît à jouer du miroitement des couleurs dorées, ambrées, des feuilles d’aluminium, ces couvertures de fortune contre le froid distribuées aux migrants. Contraste de comédie entre les hommes en blanc et de couleur !  Plus tard, un homme noir entonne une sorte de chanson de geste stupéfiante : scandé à la façon rap, elle raconte le chemin de souffrance parcouru à partir du Nigéria, qui passe par la Libye et ses prisons sinistres, à travers le désert qui oblige de boire son urine, jusqu’à la mer et à ses entremetteurs cyniques. Cadeau au film que ce récit émouvant et insupportable qui à lui seul porte à un point de culmination l’évidence du malheur enduré.

Le travail d’identification est entrepris : chaque migrant est photographié et numéroté. Plans de visages. La caméra s’attarde sur celui qui porte le numéro 41. L’homme regarde non l’appareil photographique mais la caméra que tient Gianfranco Rosi. Il soutient son regard, mutique, et ce faisant il dévisage le spectateur. Exceptionnel moment de silence qui esquisse l’incommunicabilité entre eux, des êtres venu de l’enfer, et les Européens des services de secours dont le travail est accompli avec une irréprochable rigueur.

Un homme s’impose comme le personnage le plus dense du film. Gianfranco Rosi comprend qu’il est essentiel à son récit, il en est la voix intérieure, sa morale. Le docteur Bartolo apparaît après une bonne vingtaine de minutes, qui d’abord pratique l’échographie d’une femme sauvée des eaux et enceinte de jumeaux. Il cherche à se faire comprendre, ici le cœur battant, la tête, là les minuscules corps enchevêtrés. Sa voix est d’empathie, de chaleur, de confiance. Puis, au environ mitan de Fuocoammare, l’homme cadré de près prend place centrale dans le récit, quand il détaille trois images de migrants apparaissant sur son ordinateur. Il parle de l’innommable qu’il doit affronter, les gens blessés, mourants, les cadavres, celui de cette mère dont l’enfant mort-né est encore lié par le cordon ombilical ; il lui revient de faire des prélèvements sur les cadavres pour possible identification ADN ultérieure. Il exprime avec une économie de mots, en faisant fi de toute lamento pathétique, un humanisme marqué par un expérience épuisante. L’émotion est entière, la scène en trois plans est exemplaire du travail de Gianfranco Rosi, qui tout à la fois procède à la description de ces événements migratoires du point de vue d’un micro territoire qu’est Lampedusa et instille dans sa narration un espace de réflexion aux accents éminemment politiques. Le docteur a sur son bureau un texte, auquel il semble parfois se référer ; s’agit-il d’un document de sa mémoire vive, les mots pour ne jamais banaliser ni oublier cette catastrophe récurrente ? On acquière alors la conviction que ces images insoutenables sont un garde-fou pour Gianfranco Rosi, qui n’ira pas lui-même filmer la mort en ses états les plus ineffables. Les images de l’ordinateur du médecin lestées de son récit sont le seuil au-delà duquel il ne peut être envisagé de filmer.

Le film inclut dans la distribution de ses personnages Pipo, un animateur de radio, qui diffuse à la demande des auditeurs des chansons d’amour et de bonne compagnie, parmi lesquelles Fuocoammare, demandée pour conjurer le mauvais temps, une prière pour que les marins puissent retourner à la pêche. Pas un mot, aucun, à propos des arrivées des migrants, dont seul le bulletin d’informations rend compte brièvement. Un autre homme, résolument étrange, hante le film, un fantôme subaquatique, qui est un plongeur en quête d’oursins, qu’il recueille dans des cagettes posées sur des rochers. Les images prises sous l’eau donnent le sentiment d’un corps en lévitation, auquel la mer et ses crustacés veulent du bien. Et la grand-mère veuve de Samuele fait la cuisine, un couple de vielles personnes écoute la chanson d’amour diffusée en leur honneur et boit le café…

Le récit de Gianfranco Rosi, qui a passé dix-huit mois à Lampedusa, résiste à une interprétation par trop évidente, il reste énigmatique à tant vouloir montrer les personnages de l’île comme étrangers au drame humanitaire qui se déroule à leur côté. L’évidence s’impose, les gens de l’île n’ont rien à dire des migrants, n’ont rien à s’en dire, n’ont rien à leur dire. Unique corps intermédiaire, celui donc du docteur, sa bienveillance douloureuse est lumineuse. Le film thématise par sa structure faite de séquences précisément délimitées, en ruptures les unes par rapport aux autres et développées sans emphase une atmosphère d’indifférence d’ordre général. C’est l’histoire de la non attention portée à son prochain, sauf à considérer les organismes professionnellement engagés à faire acte de sauvetage. Portrait austère d’une société calfeutrée, frileuse, repliée sur elle-même, tout en organisant ses services humanitaires. Paradoxe sidérant. La métaphore est considérable, si Gianfranco Rosi l’a voulue au sens de stigmatisation de l’Europe qui manifeste son échec tout aussi considérable à définir une politique commune à l’endroit de ce phénomène affligeant.

Le film parvient progressivement à son terme sur des images que le réalisateur ne paraissait ni vouloir ni pouvoir filmer, celles que commente le docteur sur son écran d’ordinateur. Il était laissé alors au spectateur le choix d’imaginer à sa mesure l’horreur. Et pourtant, Gianfranco Rosi va en fond de cale d’un bateau et filme en trois plans muets, fixes, les cadavres, le désordre de leurs corps enchevêtrés, des vêtements maculés, des bouteilles d’eau écrasées. Aller au comble de la monstration de la violence, tel est ainsi le geste engagé résolument par le film.

Il est temps que le cycle narratif s’achève, dernières scènes du film. On y fait soigneusement son lit et rend hommage au mari décédé comme à la Vierge Marie ; un air d’opéra instille quelque gravité à cette ambiance, l’animateur de radio paraît ému alors que le chœur de Moïse en Égypte, dont le sous-titre est pour mémoire le Passage de la Mer Rouge, gonfle ses effets.

Mais la vraie fin agit comme une gifle de pessimisme. Samuele, le réconcilié avec le nature et ses oiseaux, on a voulu le croire, déambule la nuit sur le ponton des bateaux de pêche. Et commence à tirer dans l’obscurité. Son fusil imaginaire est chargé, il fait feu avec force bruitage de bouche. Est-ce l’avenir à envisager avec ce petit monsieur borgne fasciné par les armes à feu ? Est-il vrai qu’il ne voit que d’un œil… la moitié du monde suggère Gianfranco Rosi ? Métaphore cinglante. Samuele n’est-il pas déjà vieux par ses fantasmes de violence, de mise à mort et des oiseaux et des hommes ? Il est d’une innocence dégradée, qui n’est plus celle de l’enfance ; son amusement fait le lit de la triviale banalité de l’humanité. Gianfranco Rosi boucle la boucle de ce récit en une désillusion désespérante qui distille un malaise considérable, palpable et muet. Et au spectateur laissé à sa solitude déboussolée de faire son lit au matin du jour et de border sa vie pour tous les jours de l’avenir. Et de danser le temps d’un chanson populaire, musique guillerette à la clé, qui entraîne le film à son générique de fin ?

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(Texte de Jean Perret déjà publié comme « La mer de l'enfance - l'oeil aveuglé », dans la Revue du Ciné-club universitaire, Histoires d'eaux, 2019, hors-série, pp. 74-80. Filmexplorer remercie l’éditeur Ambroise Barras pour la gentille collaboration).


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Fuocoammare | Film | Gianfranco Rosi | IT-FR 2016 | 107'

Golden Bear at Berlinale 2016

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First published: May 18, 2016