Dolor y gloria

[…] Prima ancora che un film su Almodóvar o un film su come realizzare un film, «Dolor y gloria» è un film sul travaglio insieme carsico e sorgivo della memoria.

[…] Sullo sfondo di questo “teatro delle figure” messo in immagine e tempo cinematografici, le sfumature psicologiche del personaggio principale, filtro e demiurgo dell’auto-finzione, risaltano ancora più nettamente ritagliandogli un ruolo che va al di là di quello di figura del regista.

Text: Giuseppe Di Salvatore | Audio/Video: Ruth Baettig

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Text: Giuseppe Di Salvatore | Reading: Eleni Molos | Concept & Editing: Ruth Baettig

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Raccontare di un artista in crisi o, meglio, di se stesso come artista in crisi, è di fatto un genere, un genere innanzitutto letterario, quindi cinematografico. Si tratta di rendere il lavoro di realizzare – o non riuscire a realizzare – un’opera l’opera stessa. È il riscatto del making of – per parlare in termini cinematografici – che può anche essere visto come allargamento dei confini dell’opera, fino ad includere la vita dell’artista come parte dell’opera. Un genere che trova esempi in tutte le narrazioni autobiografiche e che si consolida con la confusione romantica di vita e arte. Con Dolor y gloria, Pedro Almodóvar adotta esplicitamente questo genere antico, a cui in realtà ha sempre ammiccato, esplorandone i due versanti principali: quello autobiografico, che si concentra riflessivamente sulla posizione dell’artista, e quello della meta-opera, potremmo dire, che si concentra riflessivamente sullo statuto dell’opera come processo. In Dolor y gloria ne va dunque di se stesso, Pedro Almodóvar, attraverso la controfigura del regista Salvador Mallo – ma il gioco di specchi contamina anche Antonio Banderas, attore feticcio di Almodóvar, che incarna proprio il regista Mallo, alle prese con il suo attore feticcio, Alberto Crespo, incarnato da Asier Etxeandia. E ne va al contempo dell’arte di realizzare un film, la quale viene scandagliata soprattutto dal lato dell’ispirazione, della motivazione e della scrittura. Ne va dunque delle persone e delle idee, e delle persone come idee, ovvero dei personaggi di una narrazione.

«A me non piacciono le auto-finzioni», sbotta l’anziana madre di Salvador Mallo, stupito di sentire un vocabolo tecnico nelle sue parole piuttosto orientate alle preghiere o alla saggezza popolare. Tra le indicazioni che Almodóvar fa passare in un film che parla (anche) di come realizzare un film, c’è questa chiave preziosa che è l’ironia. La serietà riflessiva di Salvador è infatti spesso attraversata da un sorriso ora cinico ora disfattista, comunque ironico. Le idee che pesano, che affannano, si trovano costantemente sollevate in una disdetta leggera, come a dire: «in fondo, non importa» – e questo spesso con un semplice gesto della mano o di un sopracciglio.

Al di qua del gioco di serietà e leggerezza, magistralmente tessuto da Antonio Banderas, stanno i vissuti, meglio: la memoria dei vissuti. È attorno a questi nodi emotivi e alle scene iconiche del passato che ruota la fragile vita di Salvador Mallo. Auto-finzione e creazione di un film, autobiografia e meta-opera, si fondono in quello che è il loro proprio territorio comune: la memoria. Prima ancora che un film su Almodóvar o un film su come realizzare un film, Dolor y gloria è un film sul travaglio insieme carsico e sorgivo della memoria. L’identità resterebbe vaga senza gli appigli esistenziali della memoria, un’opera narrativa sarebbe priva di linfa senza il nutrimento indispensabile della memoria.

Nella memoria esaltata dalla finzione e nella finzione animata dalla memoria, Pedro Almodóvar lascia ampio spazio ai clichés. I caratteri dei suoi personaggi sono sottolineati e costantemente caricati – come i colori che contraddistinguono l’estetica netta e un po’ chiassosa della sua fotografia. La drammaturgia segue egualmente un ritmo che riduce le scene all’essenza della loro funzione. Particolarmente nelle scene di Salvador bambino, i clichés abbondano e non suonano ridondanti solo per la cura straordinaria della bellezza dell’immagine e della composizione. Ma nel caso di queste scene del passato, scopriremo alla fine – con un colpo di scena intelligente – che si tratta delle scene del film di Salvador Mallo stesso, dunque legittimamente più distanti e in certo senso più “finte” di quelle del resto di Dolor y gloria. È la memoria della memoria, che nel suo spontaneo filtrare finzionale finisce per avvicinarsi al cliché.

C’è un dettaglio che trovo particolarmente significativo nell’organizzazione delle immagini di Dolor y gloria: la quasi assenza di paesaggi esterni e soprattutto lo schiacciamento della profondità anche negli interni. Paradigmatiche sono le scene in cui i personaggi si ritrovano come “persi” in un sfondo monocolore, un muro rosso, uno schermo bianco, una fotografia murale kitsch. Almodóvar opera una sistematica destrutturazione del contesto fisico dei personaggi, la cui profondità è dunque sostanzialmente temporale, cioè affidata alla loro memoria, al loro paesaggio interiore. Nonostante una scenografia sensuale e una grande attenzione agli oggetti, le persone risaltano fino a saturare tutto lo spazio. Il cosmo di Dolor y gloria è occupato interamente da una sorta di iper-personalismo, che gli conferisce così una tonalità teatrale e minimalista.

Ora, clichés e iper-personalismo non si contraddicono, ma confluiscono nell’idea di persona come “figura”. Salvador Mallo, Alberto Crespo, Jacinta, Federico, Zulema, etc. sono persone della memoria e della finzione, quindi personaggi del cinema, ma anche e soprattutto “figure”, in un senso più ampio che abbraccia la vita e l’opera, la memoria fresca e la ricostruzione finzionale: sono – rispettivamente – “il” regista, “l’”attore, “la” madre, “l’”amante, “la” confidente, etc. Sullo sfondo di questo “teatro delle figure” messo in immagine e tempo cinematografici, le sfumature psicologiche del personaggio principale, filtro e demiurgo dell’auto-finzione, risaltano ancora più nettamente ritagliandogli un ruolo che va al di là di quello di figura del regista. Salvador Mallo esita, non urla e non piange quasi mai, è costantemente tormentato ma non esplode, è senile ma ancora curioso e pronto allo slancio. Soprattutto, è capace di una dolcezza e tenerezza straordinarie, le quali costituiranno il vero akmé drammaturgico di Dolor y gloria, il vero sfogo emotivo di una narrazione sempre tesa e mai violenta. Per questo è veramente eccezionale la performance di Antonio Banderas, personaggio e figura, ma anche controfigura (di Almodóvar) e infine vera e propria persona, dove l’esitazione diventa umanità.

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Dolor y gloria | Film | Pedro Almodóvar | ESP 2019 | 113’

Best Actor (Antonio Banderas) at Festival de Cannes 2019

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First published: July 28, 2019